venerdì 29 aprile 2022

Noi e Cavour

Un sistema federativo, su qualsiasi scala sia fondato e quali che siano i legami che lo costituiscono, non può esistere se non ha come base un interesse comune, se i popoli non posseggono un alto livello di civiltà che li metta nelle condizioni di comprendere ciò che conviene di più. Ora mi sembra che questo non sia affatto il caso dell'Europa. Da Lisbona a Mosca, da Londra a Napoli, le questioni più importanti sono discusse con un ardore inaudito, si è scatenata una lotta in tutti i luoghi dell'Europa tra i partigiani dei lumi e i fautori dell'oscurantismo. E in un momento in cui regna una tale divergenza di opinione non solo tra sovrani, tra popoli, ma anche tra individuo e individuo si vorrebbe sottomettere l'Europa a un arbitrato assoluto?

Si ha un bel dire che il congresso generale si occuperebbe soltanto delle questioni tra popolo e popolo e che non si intrometterebbe affatto negli affari interni di ogni Stato, ciò è impossibile. 

[...] Civilizzatevi, istruitevi e sarete liberi dal flagello della guerra; ecco cosa occorre ripetere continuamente ai popoli. Se tutte le nazioni europee avessero raggiunto un alto livello di civiltà, la guerra d'Oriente non ci sarebbe stata. Tutti si sarebbero interposti per sostenere la causa dei greci e il turco sarebbe stato costretto ad accordare sei anni prima ciò che gli è stato estorto con il ferro e il fuoco. - Camillo Benso conte di Cavour




Sembrano scritte oggi queste parole, che invece appartengono a una lettera scritta dal giovane Cavour allo zio. Viene da chiedersi come sia stato possibile che stato creato da un uomo così lungimirante possa essere stato poi attraversato dal ventennio buio del fascismo e sia arrivato alla stupidità attuale. 

Il grado di civiltà che dovrebbe portarci a risolvere i conflitti con la diplomazia, non è ancora stato raggiunto e probabilmente non lo sarà mai, in un'Europa che vuole essere unita sotto un unico pensiero, ma in cui continuano a prevalere interessi contrastanti.

È interessante poi notare come Cavour parlasse dei "greci e il turco", senza confondere un governante invasore e il suo popolo. Problema culturale che oggi ci porta ad escludere i tennisti, le musiche e gli scrittori, persino quelli del passato. Oppure a cambiare i titoli dei film per via di una zeta.


domenica 10 aprile 2022

L'Occidente

 «La risposta era una sola: Stalin. Per quanto mi riguarda posso dire che nel corso di venticinque anni non ci fu un solo giorno in cui io non abbia sentito la sua presenza nel mondo, non abbia provato sdegno, disgusto, umiliazione, paura di fronte a quel nome.»

Ieri, quando ho letto la notizia del divieto da parte di Kiev ai ballerini ucraini in Italia di ballare musiche russe, mi sono tornate in mente le parole della Berberova perché in questa notizia ho sentito la presenza opprimente di uno stato, di un regime, che insegue i suoi cittadini anche fuori dai confini nazionali e impone i comportamenti da seguire. Due stati che per molto tempo sono stati lo stesso e che hanno condiviso la stessa cultura, al punto che il più grande scrittore ucraino è uno dei più grandi scrittori russi. È proprio quella cultura che viene attaccata e confusa con un dittatore. Perché non c'è dubbio (e non ci dovrebbe neanche essere bisogno di continuare a precisarlo) che la colpa di questa situazione sia di Putin. Ma l'attacco alla cultura, il tentativo di farla sparire anche da altri paesi, è quello che dovrebbe fare più paura e far capire che forse stiamo parlando di due cose molto simili.

«...dove si bruciano i libri si finirà col bruciare anche gli uomini» ha scritto Heine un secolo prima che i suoi libri venissero bruciati nei roghi nazisti, seguiti dagli uomini bruciati nei forni crematori. Lo stesso Heine di cui parla Popper in "La società aperta e i suoi nemici" come di un amico di Marx di «idee completamente diverse». Eppure «nonostante questa eresia Heine restò amico di Marx; infatti in quei giorni felici la scomunica per eresia era ancora ben poco comune fra coloro che combattevano per la società aperta e la tolleranza era ancora tollerata.»

Ma lo stesso Popper è letto poco, male, solo attraverso vignette che fraintendono il suo paradosso sulla tolleranza e vengono usate per giustificare l'intolleranza. Ogni dubbio è bandito e non resta possibilità di guardare da un'angolazione diversa, come se il mondo funzionasse con due tasti: bene/male, bello/brutto, buono/cattivo. 

Poi arriva un messaggio da parte di chi, in mezzo alla guerra, trova il modo di lavorare, di far andare avanti il mondo di prima, di mantenere una routine che possa essere la base per il dopo. E in questa voglia di un dopo, in questo sforzo di crearlo, c'è così tanto contrasto con quello che facciamo invece noi, con il nostro contrapporre il condizionatore e il lavoro alla pace. Come se la nostra rinuncia al progresso, come se la nostra decisione di vivere in miseria potesse fermare la guerra. Come se il nostro unico sforzo debba essere quello di fermarci, fare meno docce e spegnere la nostra civiltà. Forse più che a tutti gli altri, i valori e il modo di vivere occidentali fanno paura proprio agli occidentali stessi.